(Recensione) L'uomo che cade di Don DeLillo
Tutti ci ricordiamo di dove eravamo mentre le Torri venivano giù. E tutti abbiamo scolpita nella mente una immagine dell’11 settembre: il lampo dell’impatto, il tremolio dell’immagine, la nube di polvere, l’assurdo volteggiare dei fogli di carta.
La mia immagine dell’11 settembre non è un video e non è una sequenza: è la semplice fotografia di un uomo normale, che nella mia mente ricordo con una giacca e un fazzoletto in mano, ricoperto di polvere e sporcizia dopo il crollo delle Torri. Ha una valigetta in mano, mentre si allontana da quello che sarebbe diventato Ground Zero e, dietro di lui, un orologio segna l’ora più buia della storia degli States.
In qualche modo, credo che la mia immagine-ricordo tradisca il mio modo di vivere quella tragedia: immediatamente - e, devo confessarlo, anche dopo - finii per focalizzarmi sulle singole storie che ne componevano l’essenza, in una distanza siderale (forse immatura, mea culpa) dalle conseguenze geopolitiche e mondiali che ancora oggi segnano la nostra quotidianità. Mi si potrà dire che è come guardare il mondo da un buco fatto con un chiodo in un muro, e ne sono conscio. Ma per me, il mio cervello e qualche decina di centimetri più in basso, dove batte il tessuto cardiaco, è ancora così.
Deve essere per questo che a me - a differenza di molta critica, anche americana - L’uomo che cade di Don DeLillo è piaciuto. Comprendo perfettamente chi si aspettasse dall’autore di Underworld (un romanzo capace come pochi di raccontare l’epopea statunitense) un racconto definitivo dell’11 settembre, una sorta di pietra miliare letteraria impossibile da superare nella narrazione di un momento bivio della Storia con la S che non si potrebbe tracciare più maiuscola di così.
Ma L’uomo che cade è introspettivo, ripiegato sulle vicende umane. Non ha nulla di epico, non giganteggia, si fa piccolo piccolo di fronte a qualcosa che non comprenderemo mai fino in fondo. Racconta la storia di Keith Neudecker, impiegato in una delle Torri, e inizia ritraendolo proprio come ricordo io: coperto di polvere e con una valigetta in mano. Keith è un uomo divorziato, ma fuggendo dal WTC senza innescare alcun pensiero cosciente si fa portare nell’appartamento in cui vivono la ex moglie e il figlio. E ricomincia, silenziosamente e tumultuosamente, inciampando negli stessi maledetti errori, a vivere.
Il romanzo si dipana così, fra i ricordi dei sopravvissuti (inclusa la vera proprietaria della valigetta) e - in continui terribili flashback - la preparazione degli attentati visti attraverso gli occhi di Hammad, uno dei dirottatori del primo aereo. Si sviluppa nella storia di ricostruzioni di vite normali, prima ancora che di un angolo di mondo verso cui puntare gli occhi. Perché in fondo, come ricostruire l’America e il WTC se non dopo aver ricostruito gli occhi e il cuore dei newyorkesi?
Con stile a volte persino freddo e impersonale, con un bisturi pronto a fare a fette piazzato tra le mani al posto di una penna, De Lillo racconta così il suo 11 settembre: partendo da una immagine per approdare ai giorni, settimane, mesi che seguiranno, al tentativo disperato e umanissimo di dimenticare continuando a ricordare, di superare il momento senza chiudere gli occhi.
Non lo facciamo tutti, anche quando la nostra vita non è sconvolta da un commando di pazzi lanciati verso due grattacieli?
Nota a margine: l'uomo che cade era sul comodino da un po', la voglia di leggerlo è scattata inesorabile dopo la visione di The Looming Tower, affrontata grazie ai consigli di @serialfiller . Grazie!
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