D'argento e tenebra
La sera del 27 luglio (2018, per la posterità) ero – come molti di voi, ritengo – sperduto in un parco a rimirare il cielo, come se di lì fosse in arrivo la risposta a qualche antica domanda. In realtà – come molti di voi, ritengo – scrutavo l’uranica tenebra in cerca della tanto pubblicizzata “Luna rossa”, paradisiaca e inedita visione che avrebbe dovuto incantare i nostri sensi e sciogliere i nostri cuori di fronte alla magnificenza del creato. O qualcosa del genere.
Fatto sta che gli ingombranti palazzi, con la complicità dell’afosa cappa di smog che quasi sempre opprime il firmamento della mia città, hanno impedito – a me e ai tanti pellegrini che ciondolavano su e giù col naso per aria – di ricevere l’agognata illuminazione. Tutti noi abbiamo quindi dovuto ritirarci nei nostri surriscaldati salotti, prima che nubi di zanzare fameliche ci dissanguassero.
L’apparente sconfitta, però, non mi ha abbattuto, anzi… Che diamine! – mi son detto – qui siamo in Altrimondi, nel tempio dell’Immaginazione, e ciò che gli altri possono solo “vedere” e sperimentare nella limitata gabbia delle percezioni, noi possiamo proiettarlo nelle dimensioni plurime e inesauribili, extra-spaziotemporali e pazzo-maniacali della fantasia…
Simbolo pressoché universale della ciclicità dei ritmi cosmici, custode della morte e della resurrezione, patrona della fertilità vegetale e animale, triplice radice del mutamento – che ha in innumerevoli figure mitiche il proprio riflesso – la Luna è da sempre l’ispiratrice e la meta di viaggi fantastici, la musa di avventure, ora meravigliose, ora terrorizzanti. Col suo lato oscuro non si scherza, come ci insegnarono a suo tempo i ragazzi del Fluido Rosa (alias Pink Floyd)… I'll see you on the dark side of the moon, cantavano nel 1973: un appuntamento da brivido per astronauti alla deriva e licantropi esistenzialisti. The Dark Side è un regno d’infinita, incolmabile solitudine, dove la coscienza naviga alla cieca come sulle onde titaniche d’un oceano notturno. Laggiù ci si perde, tra quei sassi morti, in un silenzio che vi esplode nelle orecchie minuto dopo minuto fino a raggiungere l’ultimo respiro dell’eternità. Quel luogo “fuori rotta” – uno spazio della mente (o Inner Space, se preferite) – è dove vivono i Jinn, i demoni del deserto, il Tentatore del Cristo e dei tanti anacoreti africani e orientali. Lo spazio in cui il Nulla diviene qualcosa di dolorosamente tangibile…
Per ora, però, conserviamo il nostro prudente distacco, rimaniamo al di qua della linea d’ombra e prendiamo confidenza col tema riepilogando sommariamente i più celebri esploratori lunari. Giusto per farci un’idea di chi sono stati i nostri illustri predecessori.
Il primo a recarsi lassù è probabilmente lo scrittore siriaco Luciano di Samosata – uno dei pionieri della “satira di costume” – che raggiunge l’argenteo satellite già nel II secolo d.C., sulle pagine della sua spassosa e fantasmagorica Storia vera, talvolta descritta come un’opera di fantascienza ante litteram. Inevitabile, poi, rievocare Ludovico Ariosto, che nel celeberrimo Orlando Furioso (1516) spedisce il povero Astolfo – a dorso d’ippogrifo – proprio sulla Luna, in cerca del perduto senno d’Orlando… Ma non meno indimenticabile è il viaggio dell’Hans Pfaall ideato da Edgar Allan Poe nel 1835, bizzarro esempio di avventuriero per caso, il quale raggiunge la meta grazie a una… mongolfiera. Man mano che l’entusiasmo positivistico per le “magnifiche e progressive sorti” dell’umanità (bianca, euroamericana e preferibilmente ricca) conquista la scena, il gusto per il meraviglioso e l’onirico, che permane ancora in Un viaggio sulla Luna di Alexandre Dumas (1857), è progressivamente affiancato dalla preoccupazione “scientifico-realistica” di spiegare come possa (o meglio potrebbe) effettivamente compiersi l’incredibile itinerario. Herbert George Wells risolve il problema con l’invenzione dell’inesistente “minerale anti-gravitazionale” Cavorite (I primi uomini sulla Luna, 1901), mentre Jules Verne, nel suo Dalla Terra alla Luna (1865) aveva preferito il più prosaico utilizzo di un gigantesco super-cannone. Espediente, quest’ultimo, non a caso utilizzato anche dal non meno famoso connazionale, il mago del cinema Georges Mèliés, in quella che probabilmente è la pellicola più nota che abbia mai realizzato, il Voyage dans la Lune (1902).
Questo per quanto riguarda i classici, le pietre miliari imprescindibili. Ma – anche tralasciando la vastissima e variegata produzione fanta-cine-letteraria, di cui potremmo tornare a parlare in seguito – non siamo che al primo assaggio. Pensate – per dirne una – ai lupi mannari. Nessuno esiterebbe, oggi come oggi, nel sostenere che la Luna (piena, of course) sia una parte integrante del loro mito. Quando quella fredda, bianca pietra spicca nel cielo in tutto il suo candore, il malcapitato colpito dalla maledizione si trasformerà senza scampo, giusto? “Anche un uomo dal cuore puro, che la notte recita le sue preghiere, può diventare lupo, quando l’aconito fiorisce e la Luna splende bianca nel cielo nero”. Ecco come lo sceneggiatore Curt Siodmak diede avvio al super-cult Universal L’Uomo lupo (Paul Waggner, 1941), legando, con questa suggestiva e profetica sentenza, il destino dei licantropi alle fasi del nostro satellite. Siodmak era uomo di ottime letture e di sottile arguzia, e non ci sarebbe di che stupirsi scoprendo che la suddetta sentenza nasconda qualche “trucco”. Il riferimento alla fioritura dell’aconito (Acomitum Napellus), per esempio, è un dato storicamente documentato: tale vegetale – dotato peraltro di un’elevata tossicità – rientrava tra gli ingredienti che le streghe, almeno fino al Cinque-Seicento avrebbero effettivamente utilizzato per trasformarsi in animali (nella fantasia malata degli inquisitori, naturalmente). Il legame con la Luna, viceversa, appare più debole e potrebbe tutt’al più essere derivato dal Satirycon di Gaius Petronius Arbiter (I secolo d.C.), dove in un celebre passaggio del sessantaduesimo capitolo, un soldato si trasforma in lupo mentre “la Luna splendeva come fosse mezzogiorno”.
Dopo di ciò, il fatale legame sembra affievolirsi fin quasi a perdersi. Non c’è dubbio che sia facile cogliere il nesso che sovrappone la figura del Lunatico-epilettico-pazzo, così a lungo – e così profondamente – radicata nella nostra cultura, con quella del licantropo, ma le fonti che documentano questa sovrapposizione paiono stranamente scarse, quasi introvabili. Il fondamentale mito di Licaone – il sovrano d’Arcadia mutato in bestia da Zeus – non ne fa menzione, e così pure il passaggio biblico del Libro di Daniele in cui è narrata la trasformazione “bestiale” del babilonese Nabuccodonosor, oppure la leggenda anglosassone di re Artù e Gorlagon (XIV secolo); lo stesso vale per i vari resoconti sui loup-garou che hanno infestato per secoli le campagne francesi e per le antiche storie scandinave. Di qui, poi, si giunge ai grandi classici dell’esotismo “etnografico” e della demonologia, dallo Strega di Gianfrancesco Pico (1523), alla Historia de gentibus septentrionalibus di Olao Magno (1555), passando per il Trattato sulla divinazione di Caspar Peucer (1552) e per l’imprescindibile Démonomanie des sorciers (1579) di Jean Bodin, fino ad approdare, attraverso decine di testi, al monumentale Dictionnaire infernal di Collin De Plancy, il quale – pur citando a sua volta numerosi tomi eruditi – non parla della Luna neppure di sfuggita… Insomma, ero ormai convinto che il buon Siodmak si fosse inventato di sana pianta tutta la faccenda, quando mi sono imbattuto più o meno per caso nella figura di Gervasio di Tilbury, un erudito inglese vissuto tra il XII e il XIII secolo, che nel repertorio di meraviglie e curiosità varie intitolato Otium imperialis (1215 circa), racconta come “alcuni [uomini] durante le lunazioni si mutano in lupi” e, poco dopo, rimarca che presso il castello di Luch (nella Francia meridionale) ci sarebbe “un cittadino di nome Calcefaria che è tormentato per sorte da un simile destino ad ogni luna nuova”… Caso risolto, dunque? Be’, non proprio. Se da un lato appare infatti poco probabile che uno sceneggiatore hollywoodiano si intrattenesse su testi così rari e desueti, dall’altro bisogna ricordare che nessuno dei due termini latini utilizzati da Gervasio (Lunatione e Neomenia) indica in senso stretto la Luna Piena… La questione, insomma, rimane aperta.
Okay, scusate la pedanteria da maniaco-lunatico.
Per tutti quelli che sono ancora svegli, vado a chiudere questa lunga dissertazione selenitica ricordando due (quasi) recenti reperti cinematografici. Il primo – esempio fantasioso di found footage (“pellicola ritrovata”, un vero e proprio sotto-genere dell’horror contemporaneo) – è l’Apollo 18 girato nel 2011 dal madrileno Gonzalo López-Gallego. Per gli appassionati sostenitori della Moon Hoax, la teoria paranoico-cospirazionista che vede nell’allunaggio del 1969 una sofisticata messinscena mediatica (incredibilmente più sofisticata e convincente di quelle che saremmo in grado di realizzare con le tecnologie odierne!), questo è decisamente un boccone saporito. La tesi del film è infatti che il programma spaziale della Nasa avrebbe subìto – dopo l’Apollo 17 – una brusca battuta d’arresto per via di certe non troppo rassicuranti “presenze” aliene che infesterebbero il nostro satellite. Realizzato con notevole perizia tecnica, il film di López-Gallego contiene sicuramente un paio di coupe de théâtre orrifici che vale la pena di gustare, ma – per imperscrutabili motivi – la distribuzione italiana non lo ha ancora ritenuto degno di importazione… Degnissimo (e giustamente, direi) è invece il Moon di Duncan Jones (2009), che ha peraltro contribuito a riportare sul grande schermo una fantascienza più ponderata e matura – capace di offrire cibo per la mente e non solo fuochi d’artificio per gli occhi – anche grazie all’interpretazione di un Sam Rockwell, tanto per cambiare, in forma smagliante. La storia di Moon è una storia di solitudine raccontata con una ben dosata regia teatrale, il diario quotidiano di un uomo che – in compagnia di intelligenze artificiali, negli spazi asettici e silenti di una base lunare, deve supervisionare operazioni minerarie vitali per l’economia terrestre. Un compito che si snoda lungo tre anni, tre interminabili anni che stanno ormai per scadere… Di più non dico, perché, proprio in quegli ultimi giorni di paziente resistenza, il protagonista (che, guarda caso, si chiama Sam) si imbatterà in una sorpresa con la “S” maiuscola, una svolta narrativa che da sola fa la linfa vitale, il midollo spinale di tutto il film. E, detto ciò…
Vi lascio così (tagliandomi le dita per non proseguire un viaggio che – in realtà – è appena iniziato), sull’orlo del Lato Oscuro. Tornerò prima o poi a parlarvene, se non mi perderò nella tenebra.
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