In onde

in #ita6 years ago

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Luce.

Non amavo quel faretto sulla mia videocamera. In quell’occasione non avrei potuto farne a meno.

Le stanze erano completamente buie. Io avevo da riprendere quanto accadeva.

Antonio: sui trent’anni, capelli neri e ricci, magro, un’aria di feroce noia negli occhi. A me il compito di seguirlo per tutte le settimane in cui sarebbe stato in gara.

La “gara” era nota un tempo come “Grande Fratello”, almeno qui in Italia.

Una volta era diversa. Oggi non sarebbe stato più possibile concepire un certo numero di persone all’interno della stessa casa, a causa delle note limitazioni sui raggruppamenti e sulle adunate.

I più recenti provvedimenti governativi, dopo una stretta applicata alla quasi totalità delle attività umane, avevano limitato a due il numero delle persone che potevano essere sorprese insieme. La legge divenne valida anche per le famiglie, con gli smembramenti del caso, le cui modalità venivano decise di volta in volta. Capitava di incontrare un padre e un figlio mano nella mano, con il piccolo che chiedeva di sua madre.

Antonio ed io eravamo quindi due, benché egli avesse un maggior peso mediatico ed attoriale. Io mi limitavo a riprendere.

Luce, e Antonio alzò gli occhi verso di me, rapido e diafano, come una bestia impaurita sorpresa dai fari di un’automobile. Lo trovai intento ad armeggiare con cavi elettrici, interruttori generali dell’impianto d’illuminazione e altre apparecchiature.

Lanciò uno sguardo furbo e incattivito verso di me, ma in realtà si rivolgeva all’obiettivo della videocamera. Dopo qualche minuto si passò le mani sui vestiti, si ravviò i capelli, e fece per uscire.

Io, ligio, lo seguii.

“Oggi tutto finisce”, disse, e io fui preda del consueto dubbio: se stesse parlando con me, con gli spettatori, o non fosse invece intento a tenere un monologo interiore a voce alta.

“Oggi ci si libera”, concluse.

Di buon passo ma senza fretta percorse un lungo rettilineo. Annusava l’aria intorno.

Di colpo svoltò in una viuzza più piccola. Automobili non ne passavano. Arrivò alla strada che costeggia il mare.

Rallentò. Afferrò con lo sguardo tutto l’orizzonte, che segnava un mare immenso d’argento, movimentato, non proprio agitato.

Si girò verso di me, ancora quello sguardo nella videocamera. Tornò a fissare l’orizzonte, e riprese a muoversi verso quel punto lontano e inafferrabile.

La sabbia scricchiolava sotto le nostre suole, ora acuta ora grave, e i nostri passi erano accompagnati dalla piccola orchestra di questi suoni e del ritmo del nostro incedere.

Crinch, cronch, cronch cronch, crinch crinch, cronch.

Proprio i nostri passi incontrarono la spuma imbiancata delle onde, lente e allungate tanto che non si sarebbe mai potuto dire “questa è spiaggia” o “questo è mare”.

“Io vado, tu fai quello che vuoi”, e stavolta ero certo che Antonio era a me che parlava.

Insieme, accaddero vari eventi.

Io, senza pensarci, presi la mia determinazione a seguire Antonio tra i flutti.

Una vedetta di guardia premette il pulsante che azionava il meccanismo di attivazione della corrente artificiale. Quella avrebbe cominciato a spingere l’acqua del mare, con ogni cosa dentro, verso la sinistra della spiaggia, con forza inaudita.

Sul volto di Antonio si formò un nuovo sguardo, di indomita sconfitta e amara frustrazione.

Le mie gambe e il mio bacino, ormai immersi nell’acqua, ne vennero arpionati, e così furono spinti dall’innaturale corrente. Il resto del mio corpo li seguì, docile.

La vedetta aveva già di certo segnalato i nostri Codici all’Alto Comando.

Antonio si lasciò trasportare dalla corrente come se ogni speranza fosse per sempre perduta.

Io ebbi la prontezza di non farmi sbilanciare, trovando la postura e la forza necessaria per lanciare morbidamente la mia videocamera verso la riva, prima che si bagnasse troppo. Uno di quei gesti inutili che facciamo nella costante illusione che ci sia sempre un “poi”.

Mi lasciai andare pure io all’abbraccio veloce.

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Davanti a me scorrevano, in ordine di profondità, sabbia, bastione, case e montagne. Mi chiesi per quanti chilometri funzionasse il crudele dispositivo.

Mi feci forza. Anzi, raccolsi tutta la forza di cui fossi capace, e ancora di più. Dimenando le braccia e le gambe cominciai ad avvicinarmi alla riva. I miei piedi annusarono un sostegno e su quello spinsero ancora di più. Abbracciai la terra ferma.

Antonio, vedendomi vittorioso, scelse anche lui di sfidare la spinta acquatica. Trovò la riva a pochi metri da me.

Mi afferrò la caviglia, si tirò a sedere, sputò dell’acqua. Mi guardò, poi guardò verso l’alta torre della vedetta, poi guardò ancora me. Il suo sguardo mi chiedeva, credo, come mai l’avessi seguito.

“Ora siamo fottuti”, disse dopo qualche minuto. “Niente più casa, né amici. Né cure, né cibo…”.

Conoscevo le nuove norme relative a coloro che venivano giudicati dissidenti, contestatori, autori di atti ritenuti non leciti in genere.

Era la soluzione moderna e nuovissima all’affollamento delle carceri, alle spese relative a processi e mantenimento dei prigionieri, e ancora a tutti i vari ed eventuali costi sociali.

Si trattava di un ottimo controllo sopra ogni azione e parola: l’ultimo, il definitivo. Una volta cancellatoci il Codice, sorta di mescolanza tra impronte digitali, carta d’identità e personale dna, eravamo divenuti inesistenti come fantasmi e intoccabili come lebbrosi. Antonio lasciò passare qualche minuto, poi si voltò verso di me.

Non era per nulla impazzito quando ripeté, guardandomi negli occhi, “né cibo”. Cominciò ad avvicinarsi a me e, visto che entrambi eravamo ancora seduti, sembrò strisciare. Mi mise le mani sulle spalle, e iniziò ad inumidirsi le labbra.

“Certo che, in qualche modo, dovremo mangiare, no?”, diceva, lentamente avvicinandosi a me, al volto, al collo: non aveva deciso nemmeno lui.

Incredulo, mi muovevo lentamente. Gli misi una mano sul mento, a trattenerlo. Egli cominciò a divincolarsi, non per liberarsi della mia mano bensì per morderla, per afferrarne coi denti almeno un dito.

La stupida, lenta, incredula e patetica battaglia continuò così per qualche istante. Antonio era ancora distratto dall’appetibilità della mia irraggiungibile mano. Ne approfittai, finalmente consapevole che la lotta era molto seria, e gli serrai la mano libera attorno al collo, e poi pure quella predata, che intanto aveva perduto la sua attenzione.

Si sorprese, e sinceramente non capisco perché: cosa mai si aspettava che facessi, io, povero operatore video finito per caso nelle maglie umide di un inatteso destino. Lo sbatacchiai spalle a terra. Guardai dei sassi lì attorno e poi il suo cranio, e i suoi denti, ma entrambe le opzioni mi sembravano eccessivamente cruente. Lasciò perplesso me stesso per primo, questa tardiva sensibilità.

Guardai allora la spuma movimentata, e poi la sua testa. Gliela sbattei sulla sabbia, tre o quattro volte, ma piano: non volevo ferirlo. Soltanto intontirlo.

Mi issai sulle gambe, ancora piegato in due visto che non osavo lasciargli andare il collo. In un balzo fui dietro le sue spalle. Presi a tirarlo verso l’acqua. Lui mi afferrò i polsi con le mani, non so bene se per dirmi di smetterla o piuttosto per agevolarmi. Eppure io tirandogli il collo sentivo che ne annebbiavo le forze e la coscienza.

Arrivai con lui nell’acqua e, anche se la corrente artificiale non era più in funzione, non osai andare oltre l’altezza giusta affinché sotto il livello vi fossero soltanto il suo naso e la sua bocca. Lo bloccai, e la sabbia bagnata dietro la sua nuca sembrava una ventosa, una terza mano che mi aiutava a trattenerlo.

Prese per un po’ a sbattere i piedi, forti e veloci, poi sempre più piano e lentamente. Tremò un po’, una specie di saluto. Lo sciabordio dell’acqua attorno al suo corpo rendeva il momento solenne.

Io, pavido come prima e come sempre, non seppi premere sul suo collo per rendergli il trapasso più veloce, ma lasciai fare tutto al mare: che era ora poesia, ora nemico, ora alleato, infine, di nuovo, poesia.

Le sue mani erano contratte, affondate nella sabbia, come ultimo appiglio al pianeta. Mi alzai sulla schiena. Piazzai il piede sul dorso della sua mano destra. La rigidità dello spasmo mi aiutò, e con un paio di strattoni e di torsioni gli strappai l’indice. Qualche brandello di pelle testimoniava il mancato uso di strumenti idonei.

Mi avviai a recuperare la videocamera. La trovai tutto sommato in buono stato. Mi ripromisi di ripulirla soprattutto dalla salsedine, quanto prima. Mi mossi verso la strada.

Alla base della torre di vedetta c’era uno dei tanti blocchi di controllo.

“Vi risparmio la fatica”, dissi, ormai ansioso di tornare a casa. Quei due giovani militari mi guardarono diffidenti ma curiosi.

“Il mio Codice, sicuramente, è appena stato bloccato. Questa – dissi, mostrando il dito del mio sfortunato amico, ignorando i loro sguardi che sembrarono come feriti – è la prova che ho azzerato un dissidente”.

L’istituzione di novelli cacciatori di taglie, che ripulissero la nazione da quanti ormai era come se non esistessero più, non era mai stata ufficiale. Né avvenivano pagamenti per tale attività. Le taglie consistevano in vari livelli di ripulitura della propria fedina penale. L’idea semplice e, come tutte le cose semplici, geniale, funzionava, perché di fatto il massacro avveniva tra tutti quelli a cui veniva cancellato il Codice. Il problema era dunque autorisolutivo.

Il più alto dei due agenti prese il dito che reggevo nella mano, e lo fece con l’ausilio di un fazzoletto. Lo passò allo scanner. Lesse velocemente quanto riportava il monitor. Annuì allo schermo. Annuì di nuovo al suo collega.

“Passi qui la sua mano”, mi disse, indicando ancora lo scanner.

Lo feci.

Lesse.

Schiacciò qualche tasto con aria annoiata.

Finse un sorriso.

“Bentornato tra noi”.

TITOLI DI CODA

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(Nelle foto: In alto, Autoritratto in mare; In basso, Vista da Capo Zafferano. Foto dell'autore.)

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