L'incoscienza di Zeman - Capitolo II
Ecco a voi il secondo capitolo. Le frasi nel virgolettato sono frasi realmente pronunciate dall'allenatore boemo.
Buona lettura!
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CAPITOLO II
LA PREPARAZIONE
“Alcuni giocatori si lamentano che li faccio correre troppo? A Pescara vivo sul lungomare, e ogni mattina alle sei vedo un sacco di persone che corrono. E non li paga nessuno.”
Fino a quell’incontro la mia vita da bambino era piuttosto, come dire, un po’ una merda.
Cioè non è che facesse davvero cagare. In fondo ero nato in una buona famiglia, ero amato, avevo una casa. Però è anche vero che a scuola non mi cagava nessuno, per strada non mi cagava nessuno, e pure la baby sitter non è che mi avesse tanto a genio.
Tutte cose che un adulto direbbe “che sono cazzate”, ma sapete come funziona quando sei piccolo, basta poco per vedere che tutti sono contro di te. Che poi io non è che mi sentissi con il mondo contro. Era più un continuo sentirmi al posto giusto nel momento giusto, ma nella vita sbagliata.
L’arrivo del Mister però cambiò in qualche modo le carte in tavola. La sua presenza mi diede immediatamente maggiore fiducia. Ero finalmente pronto a spingermi oltre i miei limiti, piuttosto modesti a dire il vero.
Come detto, il Vate apparì improvvisamente. E poco dopo la sua apparizione sparì.
Lì per lì pensai fosse stata una allucinazione data dal picco glicemico provocato dai tre Kinder Pinguì che mi ero appena sparato durante la ricreazione. Ed invece no. Mentre ero a cena con i miei genitori, il Mister apparve nuovamente dicendo «Una cena per essere una cena deve iniziare con un morso al boccone», e poi sparì nuovamente.
Mi girai allora verso mia madre, poi verso mio padre, ma loro continuavano a mangiare, per cui era chiaro che continuassi a vederlo solo io. Eppure non è che mi chiesi se fosse reale, o stessi impazzendo, in fondo ero un bambino. Quello che pensai fu cosa avesse voluto dire con quella frase. Così rimasi fisso a guardare il vuoto per più di qualche secondo. Fu in quel momento che mia madre si accorse di quello sguardo catatonico e passò una mano davanti ai miei occhi.
Poi si girò verso mio padre.
«Ma che si inceppa come te?» disse delicata come Gino, il meccanico che lavorava sotto casa nostra all’epoca.
Mio padre non rispose.
Non perché si sentì offeso, quanto perché stava ancora pensando alla partita che la Roma aveva pareggiato tre a tre, partendo da un punteggio di zero a tre, a suo favore, fuori casa. In sintesi era entrato nel loop della sindrome da rosicamento giallorosso.
Secondo le statistiche, la sindrome da rosicamento giallorosso è una sindrome psicologica che colpisce circa il settanta per cento dei tifosi giallorossi, con incidenza massima in età compresa tra i quindici e i settant’anni. La sindrome da rosicamento giallorosso ha un esordio piuttosto immediato, comportando l’attivazione di un meccanismo definito “loop degli highlighs” che fa si che il paziente continui a vedere la sintesi della partita, con supporti televisivi o semplicemente mnemonici, per affrontare il senso di incredulità. La prognosi è di solito infausta per tutto il periodo di campionato. Tende con l’estate a mutare nella sindrome benigna del “calciomercato a strattoni”, salvo la presenza di mondiali ed europei.
Ma io non ero nello stato di mio padre, io ero solo super concentrato su quella frase pregna di chissà quale significato.
Mia madre, che ora ci guardava entrambi inebetiti, a quel punto disse: «Furio, ma mi vedi a mammà?», ma io che ero troppo concentrato per ascoltarla, lessi il labiale e capii «Furie’, ma che ti scappa da caga’?».
Non mi scappava affatto di cagare, ma risposi «Sì!», balzando verso il bagno per trovare un luogo sicuro dove meditare indisturbato su quella perla di saggezza del Maestro. Ma non fu una buona idea.
Mia madre, come ogni madre degna di tal nome, non poteva accettare che mi stessi semplicemente cagando addosso. Lei doveva, come ogni madre che si rispetti, monitorare. Ed entrò in modalità “mastino”.
«Furio sei sicuro che stai bene?» disse avvicinandosi alla porta del bagno.
«Si mamma!»
Ma non era vero. Mi stavo logorando dentro per comprendere quella fase apparentemente priva di senso, ma che doveva avere un senso.
Eppure il mio cervello diceva di no.
La mia fantasia diceva di no.
Il cesso diceva di no.
La settimana enigmistica sopra la lavatrice diceva di no.
Mia madre invece diceva «Furio sicuro sicuro? Non vuoi che mamma entra?»
«No mamma!!!!!» risposi con chiaro tono da “levati dalle palle!”.
«Furio dai apri e fammi entrare che sistemo le cose, ci penso io!» rispose lei. Mia madre era passata dalla modalità “mastino” alla modalità “Supereroe”, quella modalità che ogni madre pensa di avere ed in base alla quale è convinta di poter risolvere “tutte cose”. Che poi avrei davvero voluto vedere come cazzo avrebbe sistemato una diarrea a spruzzo del figlio.
Forse infilandogli un limone nel culo.
Ad ogni modo ero al limite della sopportazione. Il maestro era apparso, aveva detto una cosa piena di senso, ma io non la capivo, per cui ero scappato al bagno per avere un posto dove pensare e mia madre mi aveva seguito per chiedermi se stavo bene, mentre mio padre era inceppato nel loop da rosicamento giallorosso.
Avevo bisogno di aiuto.
Nel frattempo sempre mia madre aveva deciso di ricorrere alle maniere dure ed era pronta ad usare la sua arma più potente: il senso di colpa.
«Furie’, ma che non vuoi far entrare a mamma tua che ti ha fatto nascere?»
E lì successe. Anziché scoppiarmi un aneurisma in testa, capii la frase del maestro. Era ovvia: ogni cosa per esistere deve avere un inizio.
Una notte di sesso, ma anche un giorno di sesso per chi ce la fa, inizia con un bacio. Una partita di calcio inizia dal fischio di inizio. Insomma, le cose per esserci devono iniziare in qualche modo.
Capita la frase uscii di colpo dal bagno con la faccia da vincitore dell’enalotto. Corsi in cucina, mi sedetti e tornai a mangiare. Mia madre mi raggiunse, mi guardò, e disse: «Furie’, ma stai bene?».
«Sì sì!».
Mia madre non disse niente, mi guardò, poi guardò mio padre, poi di nuovo guardò me e disse «annamo bene!».
Quel suo “annamo bene” stava a significare tante cose più o meno umilianti, ma a me non interessava. Io avevo capito quella frase che solo il maestro poteva pronunciare, così semplice eppure con un significato così profondo.
“Per ogni cosa deve esserci un inizio”. Fantastica.
Quello fu il primo insegnamento che mi regalò il Vate.
Ma molti ne seguirono ed in breve tempo capii che il problema non è tanto l’inizio, e nemmeno tanto la fine. Il problema è la preparazione.
Come diceva sempre il Maestro, la preparazione è la base di un intero campionato, ma anche di ogni altra attività quotidiana. Lo capii pienamente in piena adolescenza, quando mi disse «la preparazione è come la masturbazione. Chi non ne fa uso ci vede benissimo, ma dura poco».
Ora mio padre non parlò mai con me di masturbazione, né di preparazione ed aveva pochissimo in comune con il Mister. Salvo due cose: essere un accanito fumatore, ma soprattutto essere testardo come un mulo con l’alzheimer.
Ora, se il Vate era così testardo da aver sempre voluto applicare lo stesso modulo, la stessa preparazione, la stessa filosofia offensiva e fumare la stessa marca di sigarette, mio padre a sua volta scendeva dal letto sempre sullo stesso piede, si vestiva sempre allo stesso modo, faceva colazione sempre con lo stesso numero di biscotti, si ostinava a comprare il Corriere dello Sport edizione “stadio” e comprava anche lui da sempre la stessa marca di sigarette. Ma più di ogni altra cosa entrambi avevano l’eterna convinzione di avere sempre ragione. E questo lo capii fin da piccolo.
Quando nacqui mio padre era proprietario di un 127 della Fiat. Ed il 127 Fiat era uno scassone mostruoso. Beveva come un boscaiolo tedesco all’October Fest, si scassava tante volte quanto il Kallak dell’Ikea, ma soprattutto era piccolo per una famiglia intera. Eppure la Fiat ingegnò uno spot pubblicitario talmente convincente che non poteva lasciare scampo: “il piacere di scegliere, senza la paura di sbagliare”.
Scegliere senza sbagliare. Nello spot pubblicitario una intera famiglia, probabilmente quella Orfei, entravano felici dentro l’auto, per poi avviarsi verso la gita della domenica. Così fotterono mio padre. E anche parecchi indecisi che dovendo scegliere senza sbagliare, si ritrovarono la prima domenica dopo l’acquisto a tentare di replicare invani la stessa scena, rimanendo perlopiù bloccati tra il montante della porta ed il sedile anteriore che era stato appositamente progettato per reclinarsi quel tanto che bastava per farti incastrare.
Mia madre aveva proposto a più riprese di cambiare quell’auto con qualcosa di più grande, ma mio padre si era sempre rifiutato, primo perché non aveva i soldi, secondo perché aveva detto a mia madre che un 127 Fiat è un’auto con cui ci puoi fare tutto. Ma mentiva clamorosamente.
Eppure mia madre, ancora giovane ed inesperta, abboccò.
Ad essere onesti il 127 era una macchina estremamente all’avanguardia per l’epoca, quasi uno status simbol, ma aveva dei limiti dimensionali insuperabili. Se non bastasse, mio padre l’aveva impantanata una volta dentro un’enorme pozza di fango nel tentativo di fare una scorciatoia per arrivare puntuale a lavoro, e da quel giorno non era più la stessa. Anche in quella occasione riuscì a farla franca, portando l’auto ad un autolavaggio automatico e lasciandola lavare con i finestrini abbassati. Il risultato fu un’auto pulitissima, profumatissima, ma con qualche problema di umidità, che influì non poco sulla componentistica elettrica, già provata dal bagno di fango.
Ma come detto, il problema reale non erano le sue performance motoristiche, quanto la dimensione.
Essendo una tre porte, era piuttosto difficoltoso caricare oggetti e persone nei sedili posteriori. Soprattutto far entrare il classico “ovetto”, dove io venivo adagiato da neonato per essere trasportato in giro, era una operazione piuttosto complicata. Mio padre era infatti costretto a far entrare prima mia madre, passarle il fardello di traverso stando attento a non far cappottare me con lui, ed infilare mezza testa dentro l’auto per aiutarla con il peso. Il tutto in un pertugio di una quarantina di centimetri. Che davvero non so quale cazzo di progettista potesse partorire una entrata posteriore così maledetta. Forse sempre uno degli Orfei.
Nei primi tempi tale procedura durava un’eternità, ma mio padre, un perfezionista assoluto quando voleva, riuscì a migliorare le performance di quella manovra fino a realizzarla in meno di due minuti. Aveva quindi ad esempio vietato a mia madre l’uso di tacchi e collanine, studiata l’esatta angolazione con cui doveva essere infilato l’ovetto, duplicato la chiave in modo da poter entrare contemporaneamente in due nell’auto. Ma nonostante ciò, rimaneva una manovra molto complicata, e ad alto rischio.
Ancora più complicata era la procedura in assenza di mia madre. In quei casi, due volte alla settimana per la precisione, mio padre era costretto a fare tutto questo da solo. Ovvero scendere di casa, poggiare l’ovetto per terra, reclinare il sedile, infilare l’ovetto inclinato di quarantacinque gradi stando attendo a non farmi cappottare, poi infilare la testa stando attendo a non cappottare lui, scastrarsi e richiudere tutto.
Quelle due volte a settimana erano le volte in cui mia madre non poteva accollarsi me a lavoro, e quindi era mio padre a dover uscire molto più presto di casa per potermi affidare ad una amica di famiglia che mi faceva da babysitter e che però viveva a quindici chilometri dalla mia casa natale, che a Roma significano un tempo che varia dai trenta minuti alle due ore.
In quei due giorni mio padre entrava in modalità Fantozzi: usciva alle sei e venticinque di casa, svegliandosi alle cinque e trentadue per garantirsi il bagno libero da mia madre, che alle cinque e quaranta si alzava per collegare la piastra per capelli occupando la zona per le successive due ore. Mia madre, una donna dall’aspetto teutonico, ma con i capelli afro.
Nonostante la strategica alzata, a cui era ormai abituato, i primi mesi di convivenza con me furono piuttosto duri, visto che non li facevo dormire manco per il cazzo.
Per cui alle cinque e trentadue, dopo una serie ininterrotta di notti insonni, mio padre era solito alzarsi, spremere il tubetto del dentifricio in buona percentuale nel lavandino, farsi un caffè, spesso senza mettere l’acqua dentro, farsene un altro, lavarsi ed infine vestirsi, nonostante un paio di volte fosse uscito in pantofole.
Ma mio padre era un maniaco della puntualità, per cui in un modo o nell’altro usciva sempre in perfetto orario con me sotto braccio nell’ovetto.
Una mattina era però più stanco del solito. Non solo non lo avevo fatto dormire a causa del primo dentino che spuntava, ma era anche andato tardi a letto a causa di una partita di Coppa Uefa della Roma, prolungatasi fino ai calci di rigore. Si alzò, si lavò i denti, con il dentifricio che aveva di striscio centrato lo spazzolino, si vestì in maniera impeccabile, avendo ormai imparato a preparare i vestiti la sera precedente, ed uscì con me ed il famoso ovetto. Ma a livello visivo il suo cervello non era ancora in grado di elaborare immagini nella maniera più corretta. Poi come ogni mattina, arrivò all’auto, posò me e l’ovetto per terra, aprì la portiera, tirò un lungo sospiro e si preparò ad avviare la procedura di inserimento dell’ovetto al suo interno.
Ma magia, con una sola mossa l’ovetto, ed io al suo interno, entrò dentro.
Mio padre fu sorpreso da tale maestria, ma convinto come sempre di essere capace di questo ed altro, non si stupì più di tanto.
«Che fenomeno» fu l’unica cosa che disse tra sé e sé.
Poi poggiò la mano destra sul volante, l’altra sulla portiera, infilò il sedere nell’auto e si sedette. Ma il suo sedere non si fermò all’altezza solita, precipitando per trenta centimetri, fino a toccare duro.
«Che cazzo...»
Mio padre sgranò gli occhi e si guardò attorno. Appena messo a fuoco meglio, solo in quel momento si rese conto di perché l’ovetto, ed io al suo interno, fossimo entrati così agevolmente nell’abitacolo: l’auto non aveva più i sedili. Ebbene sì, durante la notte gli avevano fottuto tutti i sedili dell’auto, per cui mio padre si trovava ora seduto sul fondo dell’abitacolo, ed io come lui ero con l’ovetto nella stessa posizione.
«Ma porca puttan...»
Ora erano le sei e trentadue, e la lancetta dell’orologio andava avanti.
«Tic Tac Tic Tac Ri Tard Ri Tard» scandiva maliziosamente l’aggeggio svizzero. Il ritardo a lavoro era dietro l’angolo. Il cartellino avrebbe sancito una irregolarità, una macchia nella sua condotta irreprensibile che mio padre non avrebbe mai tollerato.
Così mio padre uscì dall’auto, mi tirò fuori, mi riportò su casa tenendomi con la mano destra, prese una sedia della cucina con la sinistra, riscese e la infilò a lato guidatore.
Quel giorno mio padre andò a lavoro seduto su una sedia della cucina.
Ed arrivò con due minuti di anticipo.
Grazie a tutti per la lettura! Spero sia di vostro gradimento!