Sentirsi Apolide nella Propria Realtà
Sentirsi Apolide nella Propria Realtà
(Immagine creata da me)
In tutta la mia vita non c'è stato un momento in cui non mi sia sentita apolide.
L'essere cresciuta tra due culture completamente diverse mi ha resa una persona ambigua.
Ho sempre avuto un pensiero ed un modo di essere estraneo al luogo in cui mi trovavo, o almeno così hanno sempre sottolineato in molti.
Come conseguenza a ciò, subentrava il complesso di non essere compresa ed accettata; mi sentivo quasi estranea ai miei coetanei, e questo senso di disorientamento non è mai mancato durante mia crescita.
Mi sentivo estranea addirittura a chi condivideva come me questo stato di nascita, avendo anche loro un genitore straniero.
Pensavo che questo fosse dovuto al fatto che in tenera età io non parlassi l'inglese, mentre molti miei coetanei erano fluentemente bilingue, ed amavano sperimentare giochi a cui io non potevo unirmi, o meglio ci provavo, ma con scarsi risultati.
Papà era solito riunirsi con anglofoni della nostra città in varie occasioni particolari, come il Thanksgiving (il giorno del ringraziamento), e noi bimbi solitamente andavamo a mangiare in un'altra stanza o uscivamo per le vie del nostro meraviglioso centro storico.
Chiaramente l'entusiasmo dei genitori di poter parlare la loro lingua madre con concittadini o semplicemente altre persone che condividevano il loro idioma, veniva condivisa dai loro bambini, che una volta riunitisi non mancavano mai di sfoggiare la loro padronanza della lingua, cosa che onestamente invidiavo ed ammiravo dal profondo. Tuttavia ero anche consapevole che il mio scarso inglese fosse dovuto a causa non a me imputabile, e non potevo dare la colpa di ciò a mio padre, che per lavoro era stato fuori così tanti anni.
Dunque sentivo di essere e non essere allo stesso tempo, e mi vergognavo intensamente perché sentivo di mettere in imbarazzo mio padre agli occhi di altri, che avrebbero potuto dubitare della sua bravura nell'educare. D'altra parte però mia sorella parlava fluentemente inglese, ed oltre a proteggermi dai ragazzini che spesso si beffeggiavano di me pur standomi di fronte, con la consapevolezza che non capissi, lei era in grado di dimostrare il contrario. Così mi sentivo in imbarazzo con me stessa perché sentivo lontana una cosa a cui volevo appartenere e di cui in un certo senso ero parte.
Con la crescita e lo studio, la barriera della lingua è caduta, ma si sa che i problemi amano mutare il loro volto, e così ne apparsero di nuovi.
Voglio però specificare che per apprendere la lingua perfettamente ci ho messo tre anni, e con precisione gli anni delle scuole medie. Indubbiamente la presenza di mio padre mi ha giovato, ma mi erano soprattutto fedeli i miei sudati libri di grammatica.
Al liceo però la maggior parte dei miei professori di inglese, avendo studiato inglese britannico, amavano sottolineare quanto fossi fuori luogo con terminologie americane, che alle loro orecchie apparivano come “slang” (nonostante non lo fosse: parlo un inglese molto pulito.) Ciò che a loro dava più fastidio erano le mie pronunce ed amavano farmi lezioni di fonetica di fronte a tutta la classe. Ricordo molto vividamente un episodio: leggendo un esercizio svolto in classe, la lettrice insieme alla professoressa d'inglese, si soffermarono sulla pronuncia della parola 'Mayor' (sindaco), che pronunciavo come avevo sempre sentito da mio padre, scrivendo addirittura alla lavagna il suono fonetico di come avrebbe dovuto pronunciarsi: ”mea”. Ora tralasciando il fatto che abbia trovato seria difficoltà nella pronuncia e che mi sia sentita in evidente imbarazzo di fronte alla classe perchè ripresa più volte. La cosa più curiosa però fu che nei giorni successivi la mia professoressa d'inglese nelle spiegazioni improvvisamente utilizzò la mia stessa pronuncia, ma nessuno la corresse.
Ci sono stati tanti altri episodi, ma vorrei scansare questi ricordi.
Dicevo, dopo aver padroneggiato al meglio la lingua, continuavo a sentirmi comunque estranea, però la differenza ora stava non tanto nel fatto che mi sentissi estranea a casa mia, ma sapevo che se fossi stata dall'altra parte lo avrei fatto ugualmente. Non perché non mi sentissi italiana, o meglio Leccese: ero pur sempre orgogliosa delle mie origini, sarei dovuta essere completamente folle a rinnegare la mia cultura portante, la mia storia ed il mio amato italiano; ma la verità era anche che il pensiero base dell'italiano medio era completamente diverso dal mio. Sia nel modo di ragionare, di vedere le cose, che nel modo di approcciarsi alla vita reale. Ciò che ho sempre ammirato del pensiero americano infatti è che la positività è tutto: loro vogliono una cosa, vanno e se la prendono, il meraviglioso concetto del “Self-made man”. Noi italiani invece siamo prevalentemente negativi. Sarà dovuto alla nostra situazione politico-economica, o ad altro, da noi tutto cambia per rimanere uguale. Ho sempre amato il patriottismo americano, così come quello italiano, ma seppur questi si definiscono nello stesso modo hanno diversi significati. Il patriottismo americano è un forte senso di dovere verso il concittadino e la patria, unito ad un grosso senso civico; mentre il patriottismo italiano è molto diversificato tra le varie regioni italiane, per le regioni del sud risiede nell'orgoglio della tradizione, dei nostri dialetti e della nostra cultura, prima di identificarci come italiani ci identifichiamo come cittadini della nostra città, invece per le regioni del nord si parla più di orgoglio generico sulla storia della cultura italica. Almeno in maniera approssimativa e generica ho sempre pensato fosse così.
La fine della mia adolescenza ha coinciso con la fine di molti dei miei conflitti interiori. Non perché non abbia più sentito sottolineare quanto fossi diversa e fuori luogo rispetto ad altri, e neanche perché non abbia più sentito parlare male degli americani come se tutte le colpe dell'essere umano ricadessero su di me, ma semplicemente perché ho smesso di volermi identificare per forza con uno o con l'altro.
Io non sono Americana, e non sono Italiana, o meglio prima di esserlo sono Leccese, e prima ancora di essere leccese sono una persona con i suoi ideali ed una propria cultura. Sono Cecilia, e nessuno potrà mai identificarsi con me, esattamente come io non potrò mai identificarmi nel complesso con un altro essere umano.
E dato che tutte queste cose fanno parte di me, della mia persona e del mio bagaglio culturale ed emozionale, allora posso scegliere di sentirmi appartenente a tutte queste realtà, come singolo esponente di ciò.
Infine consiglio ad ogni persona che si sente fuori luogo nella sua casa di guardarsi allo specchio e di amarsi per ciò che è, senza per forza volersi identificare in un unico gruppo, o almeno se sentite questa necessità siate i capostipiti che porranno le basi di questa nuova evoluzione dell'essere apolide.